Padergnone
è un comune della provincia di Trento.
ORIGINI
E CENNI STORICI
Il primo atto amministrativo in grado di coinvolgere
delle istituzioni della Conca dei Due Laghi sembra
essere quello consumato nel secondo secolo d.C. dal
toblinese Druìno, il quale, in qualità
di amministratore dei campi dei Toblinati, dovette
versare duecento sesterzi al collustrione vezzanese
per ottenere l'autorizzazione alla costruzione del
tempietto dedicato ai fati e alla fate, di cui parla
la lapide murata in Castel Toblino. Con i suoi tre
siti funerari d'epoca romana (quello di Sottovi, della
Croce e dei Cantoni) e con l'ospitalità data
alle famiglie di coloni romani (i Paterni e i Barbati)
ai fini della produzione del vino retico, l'area padergnonese,
compresa com'era fra il collustrio vezzanese a nord
e il complesso abitativo dei Tublinates a sud, diede
il suo specifico contributo alla romanizzazione (molto
intensa) della Valle dei Laghi e partecipò
alla formazione del pagus tardoimperiale che la interessava.
Quest' ultimo si poneva come intermedio fra il territorio
del muncipium Tridenti (eretto nel 46 d.C.) e quello
del pagus Nomassi [Lomaso] in Giudicarie. I pagi,
naturalmente, erano tenuti (alla lontana) a rispettare
le leggi romane, ma a livello locale ubbidivano, coll'andare
del tempo, alle disposizioni dei magistri pagorum
e dei curatores pagi, che si servivano delle cosiddette
leges paganae (antenate dei nostri futuri statuti)
ed erano dotati di tutte le competenze riguardanti
la gestione del culto e di ciò che allora costituiva
i pubblici servizi. Già in età augustea
il municipium trentino, con confine al Gaidoss, venne
assegnato alla tribù Papiria, ma il nostro
territorio fu attribuito alla tribù Fabia,
appartenente al municipium di Brescia. Le terre attualmente
trentine costituivano l'ultima propaggine settentrionale
della X Regio Italica. Più oltre si profilavano
le aree provinciali della Raetia e della Vindelicia.
L'eco delle istituzioni romane resse anche nel 268
d.C., quando un esercito minaccioso di Alemanni, penetrato
nell'attuale Valle dei Laghi, fu sconfitto a stento
dall'imperatore Claudio II nella piana di Riva. Da
allora un castrum, collocato sul Castìn, vegliava
sulla conca padergnonese, e la nostra zona divenne
importante, oltre che per motivi economici e civili,
anche per ragioni militari. I soldati cristiani, apportatori
di reliquie, la resero significativa anche dal punto
di vista religioso: è probabile che ad essi
risalga, infatti, il culto cristianizzatore di s.Valentino,
di s.Massenza e dei santi Nerei. Gli Alamanni si rifecero
vivi dalle nostre parti anche nel 271, e nel 452 gli
Unni, nel 464 gli Alani e nel 476 i Goti. Erano spinti
a percorrere la nostra terra dalle temibili fortificazioni
erette in Valle dell'Adige, incoraggiati dalla viabilità
locale messa a punto da secoli di presidio militare
romano. Intorno ai magistri pagorum e ai curatores
pagi (come il toblinese Druino) si andavano condensando
alla bene e meglio i futuri nuclei delle pievi. Era
iniziato il tempo della rarefazione istituzionale
soprattutto delle campagne, temperata soltanto dall'insorgenza
delle eredi di pagi: le pievi rurali. Quando, nella
seconda metà del secolo VI, arrivarono i Longobardi,
s.Martino in monte divenne terra di frontiera. Come
tutti gli altri s.Martino che compongono il sistema
giudicariese, anche il nostro fu sede di una guarda
inerpicata sull'omonimo gahagi, dove gli arimanni
custodivano gelosamente la loro identità ariana
contro quella cristiana dei conquistati. La piccola
chiesa dall'abside quadra, quando anche i longobardi
si fecero cristiani, fu intitolata al santo vescovo
di Tours, la cui vita è il paradigma dell'esistenza
di questo popolo. S.Martino fu confine fra la diocesi
di Milano e quella di Aquileia, la prima fedele, nelle
controversie teologiche della seconda metà
del secolo VI, alla chiesa romana, e l'altra propugnatrice,
fino agli inizi del secolo VIII, dello scisma tricapitolino.
I Longobardi non erano un popolo molto compatto. Fra
il re e i nobili, detti duchi, non correva buon sangue.
Fino ad un certo momento la nostra zona appartenne
al patrimonio regio, ma in seguito il potente duca
di Trento Evìno (morto nel 595) annettè
al suo ducato (gau), che confinava con quello di Brescia,
anche il territorio padergnonese con tutta l'odierna
Valle dei Laghi e forse anche il Basso Sarca. Nonostante
essa dovesse risentire ancora per molto della sua
situazione di frontiera, fu verosimilmente questa
circostanza a costituire la prima formale (e debole)
assegnazione della nostra zona alla sfera istituzionale
trentina. Accanto al gau trentino si andava configurando
la ripartizione territoriale della Judicaria Summa
Laganensis, che comprendeva il Basso Sarca, Le Giudicarie,
le Valli di Ledro e del Chiese, e dipendeva direttamente
dal re o, in suo nome, da un giudice con poteri autonomi
rispetto ai duchi. I Longobardi impiegarono quasi
cento anni ad imparare il latino e a capire che i
reati andavano puniti dalla legge e non con fàide
di famiglia, e che in caso di controversie giudiziarie
ci volevano prove e testimoni anziché improbabili
giudizi di Dio. Della nostra gente sottomessa, quelli
che non erano schiavi erano solo semiliberi gravati
di pesanti tributi. Ciò nonostante i nostri
lontani antenati impararono più dai Longobardi
che da qualsiasi altro popolo invasore. I Longobardi
davano grande importanza alle assemblee, che erano
tutelate dall'Editto di Rotari (643 d.C.), tanto quelle
règie e quelle generali degli arimanni (art.8),
quanto quelle ducali o placiti e quelle pievane, chiamate
conventus ante ecclesiam o fabulae inter vicinos (art.346).
I vicini avevano diritto di prestare giuramento in
mancanza di uno dei giudici detti sacramentales; ad
essi spettava l'arbitrato per stabilire eventuali
danni provocati al bestiame o verificatisi in seguito
ad incendio doloso. Era anche riconosciuta ai vicini
una forma di proprietà comune, indivisa e indivisibile,
ignota al diritto romano e matrice dei futuri usi
civici. Fu da questa cultura vicinale longobarda che
poterono nascere, più tardi, Regole e Comuni.
La Chiesa di Roma non amava gli ariani Longobardi,
e più di una volta si rivolse ai Franchi per
toglierli di mezzo. Delle varie incursioni franche
in territorio longobardo, quella del 590, comandata
da Cedino, ebbe la ventura di distruggere il castrum
Vitiani, per poi inoltrarsi oltre il Casale a radere
al suolo il castrum Ennemase (Lomaso). Dopo che i
Franchi, nel secolo VIII, scesero per conquistare,
il circondario padergnonese fece parte del Sacro romano
impero di Carlo e poi del Sacro romano impero germanico
dei Sassoni e del Franconi. Carlo dei Franchi lasciò
dapprima i duchi al loro posto, dopo aver sterminato
con inaudita ferocia ogni rimasuglio di arianesimo
nostrano: la sua violentissima dearianizzazione è
consegnata al leggendario racconto delle sue imprese
contenuto nel Privilegio di s.Stefano di Carisolo.
In seguito, però, egli riempì le nostre
terre di conti e di marchesi di origine franca, trasformando
anche il ducato di Trento prima in contea e poi in
marca. I Franchi introdussero il sistema feudale:
secondo loro l'unico proprietario del mondo era l'imperatore
sacro e romano, il quale, con le buone o con le cattive,
concedeva in beneficio a certi suoi fedeli feudatari
(abilitati a ripetere in proprio l'operazione in scala
ridotta) qualche territorio con la gente che ci abitava
e che faceva tutt'uno con la terra. Mentre i Longobardi
avevano favorito, con l'andare del tempo, la piccola
proprietà privala o allodiale e la proprietà
collettiva o vicinale, e avevano mantenuto le distanze
dalla Chiesa di Roma, i Franchi favorivano la servitù
della gleba e si dedicavano soprattutto al clero,
verso il quale erano straordinariamente prodighi di
benefici. Da noi essi vanno ricordati soprattutto
per l'istituzionalizzazione delle pievi e soprattutto
delle decime. Queste ultime erano in vigore fin dagli
albori delle pievi, assumendo allora però la
modalità di versamento spontaneo dei ricchi
e dei potenti al fine dell'alimentazione del tesoro
per i poveri. A partire dalla regola di Aquisgrana,
emanata da Ludovico il Pio nell'816, la decima venne
secolarizzata con una caratteristica duplice inversione:
da una parte venne istituzionalizzata, resa obbligatoria
e addossata alle classi meno abbienti a favore del
ceto clerico-feudale, e dall'altra fu parificata alle
imposte civili, fino a quando, nella prima metà
del secolo XX, venne abolita come privilegio feudale.
La storia statutaria padergnonese ha inizio il 2 aprile
del 1420, quando gli Antiani et majores ac regulani
villarum Vezani et Padrignoni ottengono i primi Statuti
da Antonio da Molveno, vicario del conte di Tirolo
Federico Tascavuota, che in quel periodo aveva occupato
la città di Trento e fatto esiliare il principe
vescovo Giorgio di Liechtenstein. La concessione era
probabilmente legata ai servigi che la nostra gente
aveva prestato al Tascavuota, allorché s'era
sentito il bisogno di rimettere in sesto il forte
del Castìn per contrastare le puntate verso
Trento del Lodron, alleato del vescovo. Naturalmente
questi primi Statuti, redatti in latino e quindi sintomatici
di una composizione abbastanza elitaria dell'autorità
costituita, non si pongono come generatori delle cariche
e delle norme locali, ma piuttosto come ricognitori
e formalizzatori delle stesse, già di per sè
presenti da secoli sul nostro territorio. Il sodalizio
vezzano-padergnonese aveva avuto modo di cementarsi
a partire fin dal secolo XIII (1208), durante i vari
episodi della lite per Arano, che vide le due Comunità
contrapporsi in solido a quelle di Vigolo e di Baselga
per lo sfruttamento di un territorio compreso fra
il corso iniziale della Roggia Grande e l'acqua del
ferèr, e denominato, appunto, Arano. La controversia
ebbe termine nel 1467 con la spartizione delle rispettive
zone d'influenza, e negli atti dell'ultimo processo
compare anche un'autorità padergnonese: ser
Tonino da Padergnone. Il sodalizio si mantenne vivo
anche nei secoli XV e XVI, quando i vezzano-padergnonesi
si scontrarono con i confederati del Pedegaza e con
altre Comunità limitrofe nella controversia
sui fuochi. La materia del contendere (comune a tutta
la realtà trentina) riguardava questa volta
la scelta della figura fiscale dei foci fumantes in
alternativa a quella dei foci dudum descripti. La
seconda era preferita da quelle comunità che,
come le nostre due, avevano avuto un saldo demografico
positivo, mentre la prima era ambita da quelle che
avevano subìto una contrazione della popolazione.
La controversia sui fuochi, nella quale i Vezzano-padergnonesi
prevalsero quasi sempre, è molto bene indicativa
del medievale regime dei privilegi, e in una delle
sue fasi, quella del 1409, troviamo espressamente
dichiarata la volontà delle due Comunità
di separarsi dal Pedegaza. La soluzione si ebbe nel
novembre del 1527. Si era appena conclusa la guerra
rustica, durante la quale Cavedine, Terlago e il Pedegaza
avevano unito le loro forze per assaltare Trento,
mentre invece i Vezzano-padergnonesi avevano protetto
la fuga del vescovo Bernardo, e l'avevano scortato
sino alla rocca di Riva. Il Cles, allora, decretò
che i Vezzanesi e, dato il sodalizio, anche i Padergnonesi,
come si erano staccati dal Pedegaza nella fedeltà
al loro principe, così siano separati in tutto
e per tutto dagli uomini del Pedegaza e possano eleggersi
e avere il proprio sindaco e gli altri ufficiali.
La nuova realtà del sodalizio senza vincoli
confederali è suggellata negli Statuti comuni
vezzano-padergnonesi del 1579-80, concessi ed approvati
per la prima volta dal principe Ludovico Madruzzo.
Lo stato attuale della conoscenza delle fonti ci autorizza
a ritenere che fra le due Comunità, sino almeno
al 1788, esistessero dei tratti tanto di identità
quanto di diversità. In un documento del 1570
si parla di un'unica vicinitas che dev'essere mantenuta
concorde. In altri del 1727 e del 1743 si dice che
detti Vezzani e Padergnoni sono un solo comune. Alcuni
articoli degli Statuti comuni sono riferiti al solo
Vezzano o al solo Padergnone, ma la maggior parte
sono cumulativi. In alcune approvazioni degli stessi
Statuti si parla di entrambe le Comunità, mentre
in altre del solo Vezzano. Quando, nel 1777, il maggiore
padergnonese Giacomo Biotti chiede al principe l'approvazione
dei capitoli aggiuntivi, si premura di consultare
i convicini. D'altra parte la copia padergnonese degli
stessi Statuti comuni porta una titolazione diversa
dalle copie vezzanesi e reca un numero diverso di
capitoli (131 contro 133), uno dei quali, molto importante,
non compare in quella vezzanese. Negli Statuti comuni
compaiono regole, maggiori ed altre autorità
esclusivamente padergnonesi. In montagna, secondo
un documento del 1680, esistevano beni comunali esclusivamente
padergnonesi, e secondo il cap. 116 degli Statuti
comuni i vicini di Padergnone non possono essere astretti
a far malga con quelli di Vezzano. Negli Statuti comuni
non si fa mai menzione della normativa sul lago, la
quale doveva quindi essere formalizzata a parte e
solo per Padergnone. A seconda che si privilegino
i tratti identici oppure quelli diversi, si può
parlare rispettivamente di sodalizio forte oppure
debole. I maggiori (i capi della comunità)
e i loro aiutanti, i saltàri, avevano il compito
di attuare e far rispettare la variegatissima normativa
locale presente negli Statuti. Essi erano elletti
drio la roda, cioè scelti a turno nella regola,
assemblea dei rappresentanti di famiglia. Se a rappresentare
la famiglia era, però un pupillo (orfano),
oppure una vedova, la roda doveva seguitare inanti.
Secondo la pergamena civica, i primi maggiori esclusivamente
padergnonesi (e quindi non più in comune con
Vezzano) eletti drio la roda (Valentino di Luchi e
Mathe Sembenotto) prestarono giuramento l'11 novembre
1612. I maggiori del 1612 segnarono, dunque, un notevole
affievolimento del sodalizio. Negli antichi documenti
si trovano spesso nomi di altri maggiori padergnonesi:
Nicolò Bernardi e Aliprando Beatrici (1637),
Giovanni Bernardi (1667), Jacobo Chemello e Aldrighetto
Frizera (1669), Paolo Fantinello e Anto' Conzetta
(1675), Baldessar Beatrici (1710), Valerio Todeschi
e Francesco Luchi (1727), Antonio Chemelli (1768),
Giacomo Biotti (1777, propositore dei capitoli aggiuntivi),
Giovanni Maria Morelli (1787) ecc. Nel 1635 venne
affiancato ai maggiori il consiglio segreto dei dieci,
un gruppo di dieci huomini da bene et buona fama che
doveva essere scelto e fatto giurare dai maggiori
nuovi subito dopo la loro elezione. La loro funzione
era di notevole rilevanza civile e sociale, ed assai
singolari le loro modalità d'azione: tener
la ragion, e la giusticia del ben publico e tener
secreto quanto si tratta in detto consiglio. Si tratta
di una forma assembleare assai diversa da quella della
regola, che era perfettamente pubblica e palese. Più
tardi, però, nel Settecento, mutò la
modalità di elezione dei maggiori. Un po' alla
volta il meccanismo della roda, molto imparziale ma
sostanzialmente cieco, lasciò il posto ad un
compromesso tra l'istanza aleatoria e un elemento
di responsabilità: si mettevano cinque capi
di famiglia vicini in sorte per l'uno di questi essere
cavati in sorte. Nelle quarantacinque pergamene padergnonesi
[1474-1669], prelevate dall'Archivio del Comune nel
1907 e depositate presso la Biblioteca Comunale di
Trento, troviamo vari interessanti riferimenti alle
nostre istituzioni comunitarie. Nella prima dècade
del secolo XVI Padergnone, insieme con Vezzano, dovette
nominare degli arbitri per definire i confini comunitari
contro Calavino, Madruzzo e Lasino. Nel 1622, la comunità,
ormai forte dell'elezione di maggiori in proprio,
vendette, in seguito a deliberazione nella Regola,
un campo al dos Padergnon a Valentino Chemelli del
fu Matteo. Nel 1631 in Trento il comune procedette
ad un accomodamento con i fratelli Domenico e Valentino
del fu Antonio Todeschi di Padergnone, abitanti a
Mattarello. Nel 1632 Nicolò Bernardoni del
fu Giacomo di Lasino dimorante in Padergnone vendette
a codesto comune un affitto di staia 18 e 1/3 di frumento.
Nel 1667 Giovanni del fu Antonio Danieli di Madruzzo
liberava Giovanni del fu Bartolomeo Bernardi di Padergnone
per il Comune dal pagamento di 100 Ràgnesi.
Nel 1669 Giacomo del fu Bartolomeo Bernardi vendeva
al comune di Padergnone una casa sita in codesta borgata.
E sempre nelle stesso anno i Maggiori del comune di
Padergnone dichiaravano assollto il medesimo Giacomo
del fu Bartolomeo Bernardi di detto loco da qualsiasi
pretesa circa l'eredità di don Antonio Bernardi
già curato di Padergnone. E finalmente si arrivò
alla riforma istituzionale del 1788, la quale decretava
l'elezione, a maggioranza di voti e con una nuovissima
pregiudiziale censitaria (18 Carentani di beni ad
estimo), partendo da una terna di capi famiglia conosciuti
i più onorevoli e giusti, non più di
due maggiori, ma di un maggiore e di un regolano,
il quale assumeva pure competenze giudiziarie di bassa
giurisdizione (cause per danni inferiori alle cinquanta
lire). Conseguentemente veniva potenziata la (ricoperta
comunque anche prima) funzione di polizia giudiziaria
del saltàro ed il ruolo tecnico-ausiliario
del vari giurati (primo giurato, giurato seniore,
giurato stimadore). I Capitoli di Riforma e Nuovi
del 1788 costituiscono a tutt'oggi la prima articolata
normativa padergnonese che si presenti nettamente
differenziata rispetto a Vezzano, e rappresentano,
insieme con la separazione dei beni rimasti comuni
in montagna del 1756, il crepuscolo del secolare sodalizio
vezzano-padergnonese. Alla fine del Settecento, dunque,
le nostre vecchie istituzioni statutarie erano dotate
di poteri (relativamente) forti. Avevano competenze
esecutive (maggiore, primo giurato e giurato seniore),
competenze basso-giurisdizionali (regolano), funzioni
di polizia giudiziaria (saltaro, giurato stimadore),
importanti funzioni delegate come l'esazione delle
collette per fuochi affidate allo scossore di còlta,
e svariate e complesse mansioni di polizia urbana
come la manutenzione stradale e la regolamentazione
di tutta la vita associata (controllo del peso del
pane, del buon ordine delle vendemmie, della vendita
delle bestie macellate, delle misure dei liquidi e
dei grani; sorveglianza dei campi, dei boschi, delle
strade, delle fonti idriche e dei corsi d'acqua in
genere; prevenzione dei furti e disciplina dei forestieri).
Ovviamente i bilanci comunitari, oltre a non essere
formalizzati e forse nemmeno redatti, non potevano
certo essere consistenti. Alimentavano le casse comunitarie
alcuni poderi bonificati (degressa e divisa) che erano
concessi in locazione trentennale a privati, qualche
pezzo di terra dato a mezzadria (come il campo del
commùn verso Limbiàc), qualche stabile
lasciato in donazione, la terza parte di qualche multa
(o, più spesso, data la rarefazione monetaria,
i pegni corrispettivi), e soprattutto le tasse pagate
dai forèsti per l'uso dei beni comunali. La
nostra cancelleria trovava luogo, insieme con la canonica,
in via al Doss (attuale via s.Valentino), all'inizio
del tratto urbano della strada imperiale che, almeno
fino a metà secolo XIX, scendeva dai Busoni,
scavalcava i Crozzoi e proseguiva per Calavino attraverso
le Spelte: lo dimostra la pergamena n.44, secondo
la quale nel 1669 il Comune comprava una porzione
di casa confinante a mattina con la via pubblica [via
al Dòss], a settentrione con Cristoforo Sembenotti,
a mezzogiorno con una porzione di casa comunale e
a sera con la via corsortile. Nel giugno del 1810
si verificò un nuovo notevole cambiamento.
Il Trentino e tutto il Tirolo meridionale vennero
assegnati al filofrancese Regno d'Italia col nome
di Dipartimento dell'Alto Adige, suddiviso in Distretti
(Bolzano, Trento, Cles, Riva e Rovereto) a loro volta
ripartiti in Cantoni giudiziari. La Valle dei Laghi
veniva tolta alla precedente giurisdizione vezzanese
ed inserita nel Cantone giudiziario di Trento. I 370
Comuni trentini furono ridotti a 107 Municipi e Padergnone
venne assegnato, con Lasino e Cavedine, al Municipio
di Calavino, il quale, non raggiungendo i tremila
abitanti, figurava di terza classe ed era retto da
un Sindaco, assistito da alcuni Savi e dal Consiglio.
In applicazione del Codice civile napoleonico gli
ecclesiastici vennero privati delle funzioni di stato
civile, e le nascite, le morti e i matrimoni dovevano
essere registrati sui libri della municipalità
da parte dell'aggiunto di stato civile, prima che
sui tradizionali libri parrocchiali o curaziali, ritenuti
niente di più che delle semplici carte private.
Fra il 1814 e il 1815 il Trentino fu reinserito nella
asburgica Contea principesca del Tirolo, la quale
pensò subito (dicembre 1814) a restituire al
clero le funzioni di stato civile, e più tardi
anche la facoltà di rilasciare i certificati
di povertà per il sussidio, e il nulla osta
per il rilascio del permesso politico di matrimonio.
Progressivamente venne abolita la precedente concentrazione
dei comuni trentini, passando dai 107 municipi a 388
comuni. Padergnone fu sciolto dalla sua dipendenza
da Calavino e si resse da solo, incluso nel Capitanato
Circolare di Trento e nel ricostituito Giudizio distrettuale
di Vezzano, del quale i Padergnonesi si servivano
non solo per le faccende giudiziarie e fiscali (Distretto
steorale), ma anche per questioni amministrative come
registrazioni di atti pubblici e privati, compravendite
con o senza accollazione di ipoteche, richieste di
stime esecutive, rilascio dei fogli di possesso ecc.
Naturalmente non c'erano più i vecchi Statuti
del sodalizio vezzano-padergnonese e la vita comunitaria
era ordinata dal Regolamento delle Comuni e dei loro
Capi emanato nell'ottobre 1819 dal governo austriaco
per il Tirolo e il Vorarlberg. I censiti eleggevano
la Rappresentanza comunale, formata per i primi cento
elettori da dieci individui, e poi da un altro individuo
per ogni venti altri elettori. I rappresentanti erano
eletti separatamente da due corpi elettorali su base
censitaria in ragione della consistenza dell'imposta,
e gli elettori davano il loro voto pubblicamente ed
oralmente davanti la commissione [elettorale] riunita.
Le mogli, le vedove, le nubili e le separate erano
considerate soggette a tutela o a curatela, e quindi
dovevano esprimersi tramite il marito (le prime) oppure
(tutte le altre) mediante procuratori. Tutte le sedute
della Rappresentanza erano pubbliche, eccettuato il
periodo di neoassolutismo politico (1851-1862). La
Rappresentanza, che durava in carica tre anni, sceglieva
poi nel suo seno a pluralità assoluta di voti
la Deputazione comunale, formata da un Capocomune
e da due Consiglieri. Il Capocomune era assistito
da un Cassiere (che assisteva il Capocomune nella
rigorosissima stesura del bilancio consuntivo e di
previsione), da un Esattore per la scossione e il
versamento delle imposte dirette, e forse anche da
un Segretario pagato dallo stesso Capocomune. La prima
normativa istituzionale comunale del 1819 venne affinata
in epoca asburgica con varie seguenti disposizioni
di legge, le più importanti della quali sono
la legge provvisoria del 1949, la legge quadro del
marzo 1862 (Disposizioni fondamentali per gli affari
comunali), il Regolamento per la Contea Principesca
del Titolo del gennaio 1866 e la legge del giugno
1892. A livello molto generale, il potere del Comune
dei regolamenti si presentava più debole di
quello del Comune delle regole, e rifletteva il passaggio
dalla medievale congerie istituzionale all'asburgico
assolutismo selettivamente decentrato. Erano sparite
le competenze giurisdizionali, quelle di polizia giudiziaria
e molte di polizia urbana, tutte assorbite dall'onnipotente
Giudizio distrettuale e dalla sua gendarmeria, sotto
tutela del quale (oltre che del Capitanato trentino,
e della Dieta, della Giunta, e della Luogotenenza
enipontane) il nuovo Comune veniva a trovarsi, ed
al quale doveva frequentemente rapportarsi. Rimanevano
al Capocomune alcune competenze attenuate di polizia
locale per tutto ciò che concerne la nettezza,
la sanità, i poveri, le strade, il fuoco, i
mercati, il buon costume, i domestici; la sorveglianza
per la conservazione dei termini di confine e la cura
per la sicurezza delle persone e delle proprietà;
l'impedimento della questua sulle strade e l'allontanamento
dal comune dei mendicanti che non appartengano al
medesimo. A tutto ciò andavano ad aggiungersi
anche alcune prerogative di polizia edilizia, come
l'applicazione del (generico) regolamento edilizio
ed il rilascio delle licenze; la manutenzione dei
locali scolastici popolari e della canonica, e il
tentativo di conciliazione sine iure fra eventuali
parti contendenti, tramite uomini di fiducia. Nell'esercizio
di queste funzioni il Capocomune poteva comminare
multe fino a dieci fiorini (venti corone) oppure,
dietro convalida del Giudizio di Vezzano, l'arresto
fino a 48 ore. Allo stato attuale delle ricerche,
troviamo per la prima volta nominata la Rappresentanza
padergnonese in un documento del novembre 1845, nel
quale appare anche il Deputato comunale Pietro Sommadossi,
a proposito della vendita del campo alla Spighéta
per rifondere la campana maggiore rotta. Essa ricompare
anche nell'agosto 1851 in una transazione col curato
per la fruizione della canonica e dell'orto annesso,
e nel documento del 1905 di fondazione del legato
Borselli, nel quale è menzionato anche il Consigliere
Daniele Rigotti. In una permuta del 1908 per la nuova
sede comunale troviamo ricordati i due Consiglieri
Illuminato Bassetti e Mansueto Biotti. Il primo nome
di un Capocomune appare nel 1822: Valentino Chemelli.
Seguono poi Pietro Sommadossi (1831), Decarli (1842),
Carlo Rigotti (1851-1857), Decarli (1857-1860), Domenico
Sommadossi (1860-1863), Beatrici (1866), Bernardino
Rigotti (1870), Fortunato Rigotti (1873), Costante
Decarli (1878), Morelli (1879-1882), Cesare Graziadei
(1895), Bernardino Rigotti (1896), Decarli (1903),
Francesco Morelli (1905), Cesare Beatrici (1908),
Porfirio Sommadossi (1914-1917). Delle due sfere d'azione
attribuite in epoca asburgica al Comune, una, quella
detta delegata, lo obbligava a cooperare agli scopi
della pubblica amministrazione: pubblicazione delle
leggi, scossione delle imposte, cooperazione in affari
di coscrizione e leva, provvisione alloggi e trasporto
militari, consegna di ricercati o disertori, allontanamento
dei forestieri sospetti, sorveglianza su pesi e misure,
rilascio delle carte di iscrizione, dei certificati
di buona condotta e dei permessi politici di matrimonio.
L'altra, quella pur chiamata indipendente, permetteva
finalmente al Comune stesso di liberamente ordinare,
disporre ed eseguire con le proprie forze. Le quali
ultime, però, per le nostre piccolissime comunità
rurali, erano spesso assai esigue, consegnate com'erano
alla gestione dell'avaro patrimonio comunale, alle
tenui addizionali alle steore (imposte dirette), al
dazio sui (magri) consumi (imposte indirette), e a
varie altre soffertissime sovrimposte. Nel 1908 la
cancelleria cambiò residenza: in seguito a
una permuta e a un versamento in contanti, l'amministrazione
comunale, insieme con la scuola (che compare nei documenti
a partire dal 1854) e la canonica, si trasferì
nell'odierno palazzo comunale. Condussero la transazione
il Capocomune Cesare Beatrici e i consiglieri deputati
Illuminato Bassetti e Mansueto Biotti. Intanto a partire
dal 1907 anche le elezioni comunali si svolgevano
a suffragio universale maschile, giusta la nuova legge
elettorale asburgica.
Dal novembre 1918 la nostra Comunità, conservando
le vecchie istituzioni asburgiche, come tutte altre
trentine, prese ordini dal Governatorato militare,
diretto dal generale Pecori Giraldi e trasformato
nel luglio 1919 in Governatorato civile con a capo
Luigi Credaro. Nel 1921 si fece il censimento: Padergnone
contava 431 abitanti e sulle prime il governo italiano
sembrava orientato a favorire le autonomie locali.
Nel novembre dello stesso, infatti, venne istituita
la Giunta provinciale straordinaria per la Venezia
Tridentina con sede a Trento in piazza Dante, la quale
però venne abolita nell'ottobre del 1922 dai
fascisti che si apprestavano a governare a modo loro
l'Italia, dando in mano il Trentino e l'Alto Adige
ad un prefetto fino al gennaio 1923. Proprio nel gennaio
1923 la Venezia Tridentina assunse il nome di provincia
di Trento retta da un Commissario reale straordinario,
dalla quale solo nel 1927 si staccherà la Provincia
di Bolzano. Sempre nel 1923 furono emanate disposizioni
in base alle quali anche la Rappresentanza padergnonese
doveva chiamarsi Consiglio e la Deputazione assumere
il nome di Giunta comunale. Già nel 1921, però,
i Padergnonesi chiamavano sindaco il capocomune Enrico
Decarli. Dal 1918 l'i.r.Giudizio Distrettuale di Vezzano
aveva preso il nome di Pretura e, come tale, sarebbe
rimasto in piedi fino all'aprile del 1931. Giunte
e Consigli comunali durarono a malapena due anni,
sostituiti come furono, a partire del 1925, da un'unica
autorità, il Podestà, di nomina governativa.
Intanto iniziava la concentrazione delle piccole comunità
che avrebbe ridotto in poco tempo il numero dei comuni
trentini da 371 a 113. In esecuzione del R.D. del
marzo 1928 Padergnone venne aggregato come frazione
al Comune di Vezzano e i beni sottoposti ad uso civico
vennero governati da un Comitato frazionale del quale
facevano parte rappresentanti di Vezzano, Padergnone,
Fraveggio, Lon, Ciago, s.Massenza, Ranzo e Margone.
Il duce del fascismo, Benito Mussolini, eliminò
qualsiasi tipo di elezione, considerata un inutile
ludo cartaceo; poi dichiarò guerra alla Francia,
alla Gran Bretagna, all'Unione Sovietica e agli Stati
Uniti d'America; e infine finì morto ammazzato
a Giulino di Mezzegra, mentre tentava di scappare
in Svizzera travestito da tedesco. Fu a questo punto
che si prese la decisione di restaurare il regime
elettorale con gli interessi, e di far votare uomini
e donne padergnonesi a suffragio universale diretto
tanto nel referendum del 1946 quanto nelle successive
elezioni comunali. Padergnone era l'unica fra le frazioni
vezzanesi ad avere il bilancio in attivo e l'impressione
precisa di essere piuttosto trascurata dal capoluogo.
Furono raccolte le firme sufficienti per chiedere
il distacco del Paese dal comune di Vezzano e la sua
ricostituzione in comune autonomo con la circoscrizione
territoriale preesistente alla sua aggregazione al
comune di Vezzano. Perché ciò avvenisse
era necessario che almeno la maggioranza relativa
dei suffragi dell'intero comune di Vezzano risultasse
favorevole. Quando il 14 ottobre 1951 si tenne il
referendum, si ebbero 352 voti per il sì e
351 per il no. Dei 310 elettori padergnonesi, solo
234 si presentarono al voto, 2 votarono scheda bianca
e 6 espressero la volontà di restare uniti
a Vezzano. Passò poi quasi un anno impiegato
a mettersi d'accordo sulla spartizione dei beni comunali
e quindi si provvide ad emanare la Legge regionale
del 23 agosto 1952, con la quale il Presidente della
Giunta regionale Odorizzi, su approvazione del Consiglio
della neocostituita (1948) Regione Autonoma Trentino-Alto
Adige a statuto speciale, decretava la ricostituzione
del Comune di Padergnone. Ci vollero inoltre altri
quattro mesi prima che, con Decreto regionale del
primo giorno di gennaio del 1953, fosse nominato per
il neoricostituito Comune un Commissario straordinario
(ai fini di constatare la situazione patrimoniale
e finanziaria del Comune) nella persona del signor
Matteo Adami. Passarono infine quasi diciotto mesi
prima che nel giugno del 1954 venisse eletto il nuovo
Consiglio comunale, in seno al quale l'Adami era eletto
Sindaco, e si desse il via agli uffici comunali e
all'anagrafe. I censiti eleggevano direttamente a
suffragio universale il Consiglio comunale, in seno
al quale erano poi scelti il Sindaco e la Giunta comunale.
Dopo il quadriennale mandato di Matteo Adami (1954-1958),
fu la volta di Giuseppe Decarli, che fu sindaco per
due mandati consecutivi, dal dicembre del 1958 al
marzo del 1967. Seguirono poi Giuseppe Morelli (marzo
1967-aprile 1971) e, per altri due mandati (dall'aprile
1971 al giugno 1980), ancora Giuseppe Decarli. Dal
giugno 1980 al giugno 1995 resse il Comune con tre
mandati quinquennali consecutivi Valentino Bassetti.
A partire dalle elezioni comunali del 1995 il Sindaco
venne eletto direttamente dai censiti quale capo della
lista col maggior numero di suffragi. A partire dal
giugno 1995 il Comune fu retto da Luca Maccabelli,
che ebbe dagli elettori la riconferma del mandato
sia nel 2000 che nel 2005.