Fontanarosa
è un comune italiano della provincia di Avellino
in Campania. Fontanarosa sorge a 480 m s.l.m. in un'area
collinare dell'Irpinia, alle pendici del monte Capo
di Gaudio, nella parte centro-settentrionale della
provincia. Il territorio comunale, dell'estensione
di 16,75 km², è in parte pianeggiante
(lungo la valle del fiume Fredane), in parte alto
e piuttosto accidentato con una quota che oscilla
dai 600 m s.l.m ai 700 m s.l.m. La parte piana è
decisamente fertile e le coltivazioni che la caratterizzano
sono quelle della vite, dell'olivo e del grano. Nelle
zone alte e boschive hanno una certa diffusione castagneti,
noceti, noccioleti e querceti. Il territorio comunale
di Fontanarosa è parte del distretto sismico
dell'Irpinia. In occasione del terremoto del 1980
vi furono, nella sola Fontanarosa, 4 morti, 352 senzatetto
e 795 unità edilizie danneggiate. Il paese
è famoso per la lavorazione della paglia e
della pietra, non a caso vi si trova un Museo dell'arte
della Pietra della Paglia e del Presepe. L'intero
territorio si caratterizza per la produzione dell'olio
DOP extravergine "Irpinia - Colline dell'Ufita".
ETIMOLOGIA
Per quanto riguarda l'origine del nome, ci sono teorie
contrastanti. Alcuni storici (per esempio Di Meo,
Della Vecchia) hanno negato l'origine longobarda di
Fontanarosa, osservando che la Rosa o Ronsa distrutta
dal terremoto si trovava nell'agro di Conza. Affermazione
tuttavia contrastata dal fatto che nei Registri del
1271 (Gr. Arch. fol. 183) si parla di un certo “Roberto
Rosa, signore di Fontanarosa”. Questo cognome
è portato anche oggi dall'unica famiglia superstite
tra le più illustri e antiche del luogo: De
Rosa, con il De alla latina corrispondente al nostro
Di, e quindi famiglia oriunda dall'antica Rosa, chiamata
così - Fontanarosa - prima della distruzione
del 987. Per quanto riguarda poi l'origine del nome
definitivo di Fontanarosa, vi sono almeno tre opinioni
più serie, oltre quella leggendaria di una
fontana appartenente ad una tale Rosa, ove molti si
sarebbero recati ad attingere («andiamo alla
fontana di Rosa»). La prima opinione ritiene
che, come si ricava da antichi documenti, il nome
sia stato originato dalla salubrità del clima
e dalla fertilità dei campi. L'altra sentenza
ritiene che il paese abbia preso nome da una sorgente
di acqua di sapor rosaceo, donde il nome di Fontanarosae:
Fontana (sapor) di rosa (vedi: F.M.Pratilo “Via
Appia”). Infine una terza teoria ricondurrebbe
il nome del paese alla parola latina "fontanarosarum",
ovvero luogo ricco di sorgenti.
SANTUARIO DI SANTA MARIA DELLA
MISERICORDIA
Il Santuario di Santa Maria della Misericordia, anticamente
noto come Chiesa di Santa Maria del Pozzo, deve la
sua fondazione a un'antica leggenda del luogo. Esistono
due versioni di tale leggenda. Secondo la prima, in
un giardino vi era un pozzo ed accanto ad esso un
grosso sambuco. Un giorno una ragazza vide su quell'albero
una maestosa immagine della Madonna. Corse ad avvertire
la gente e l'arciprete che decisero di prelevare l'immagine
e di porla nella principale chiesa parrocchiale del
paese. Il giorno seguente non vi trovarono più
quell'immagine che invece era di nuovo sul sambuco.
L'arciprete riportò l'effigie nella chiesa
ma il giorno dopo quest'ultima fu nuovamente rinvenuta
sul luogo d'origine. Tale fatto si ripeté per
tre volte; era fin troppo chiaro che la Madonna desiderava
essere venerata in quel luogo e perciò lì
bisognava costruire una chiesa. La prima struttura
risultava piuttosto semplice e di dimensioni modeste.
L'albero e il pozzo furono conservati a lungo, alla
vista e alla contemplazione di tutti. Col passare
del tempo l'albero seccò e il pozzo, che costituiva
un pericolo, venne coperto e, mediante un sistema
di condutture, la sua acqua, alla quale si attribuivano
poteri miracolosi, fu incanalata in un altro pozzo
di raccolta con possibilità di attingerla in
piena sicurezza. Al di sopra fu elevata un'edicola
con l'immagine della Madonna contornata dalla raffigurazione
di alcuni miracoli ad Essa attribuiti. Sia il pozzo
che l'edicola sono tuttora visibili e accessibili
da parte della comune gente. Un'altra versione della
leggenda afferma che, in un tempo in cui ci fui una
spietata lotta contro il moltiplicarsi delle immagini
sacre, i fedeli nascosero la prodigiosa statua della
Madonna da essi venerata in un pozzo sito in un luogo
impensabile, che oggi si addita proprio alle spalle
della chiesa, ma non nell'acqua, bensì nella
parte superiore, ben mimetizzata. Poi, dopo che se
ne era persa la memoria, fu miracolosamente ritrovata
e le fu edificata una chiesa proprio lì vicino.
Per quanto riguarda la struttura della Chiesa, dai
recenti lavori di restauro, sono apparse tracce della
presenza di un'altra chiesa, precedente all'attuale
e molto più piccola. Essa risaliva al XI-XII
secolo e doveva avere una sola porta d'ingresso su
una facciata e all'interno una sola navata, senza
pilastri. Nel corso dei secoli è stata ricostruita
due volte: una volta nel 1456, a causa di un terremoto;
un'altra, nel 1700-1731, per migliorarne le condizioni
estetiche e strutturali, in seguito anche ai disastrosi
terremoti del 1688, 1694 e 1702. Nel 1700 fu aperta
la “porta nuova”, attuale porta d'ingresso
alla Chiesa. Tali lavori conferirono alla chiesa un
nuovo aspetto che ancora oggi conserva: fu notevolmente
ampliata mediante l'aggiunta di altre due navate,
separate da due colonnati; la facciata fu arricchita
e abbellita; fu costruito il coro, disposto nell'attuale
abside; fu dotata di opere pittoriche di pregevole
valore artistico; la nicchia fu rivestita di pregiati
marmi ad opera degli artisti napoletani Gabriele Del
Caiso e Generoso Salvatore. La consacrazione della
nuova chiesa avvenne il 16 aprile 1731 mediante un'imponente
cerimonia presieduta del vescovo Monsignor Giovanni
Paolo Torti Rogadei (1726-42). Infine ulteriori lavori
di restauro si devono a Don Gennaro Penta, nel 1903-04,
con la decorazione dei soffitti della navata di destra
(si ricordano gli affreschi: Trionfo dell'Eucaristia
e l'Agnello immacolato, ad opera dell'artista napoletano
B. Rinaldo) e della navata centrale (l'Assunta del
decoratore Chiambrianti). Volendo compiere un'analisi
strutturale di come si presenti la Chiesa oggi, possiamo
dire che l'edificio è diviso in tre navate,
quella centrale risulta essere più grande di
quelle laterali e un'antica balaustra in marmo chiaro
la divide dall'altare maggiore. Quest'ultimo risale
al 1726 ed è realizzato in marmo di diversi
colori, sapientemente accostati e intarsiati. La chiesa
ospita altri sei altari, tre per ogni navata laterale,
eretti nel corso del tempo per volontà di alcune
famiglie aristocratiche del paese. Quelli più
antichi e di maggior valore artistico sono posti nella
navata di destra, tutti dedicati alla Madonna. Partendo
dall'ingresso, il primo altare che si incontra è
detto “Della Madonna di Costantinopoli”
e risale agli inizi del 1600. La base, in pietra e
in marmo di vari colori, è sormontata da un
quadro di notevoli dimensioni raffigurante la Madonna
che porge il Bambin Gesù a Sant'Antonio e San
Giuseppe. Il popolo devoto, che anticamente si fermava
in preghiera inginocchiato al suo cospetto, chiedeva
grazie e intercessioni ora all'uno e ora all'altro
Santo. Il secondo altare, detto “Trittico della
Candelora”, è interamente in legno stuccato
e risale al XVII secolo. È costituito da tre
nicchie che alloggiano, al centro, la Madonna della
Vittoria, a destra Sant'Antonio e a sinistra San Biagio.
Il terzo altare è detto “Della Madonna
degli Angeli”, sormontato da un grandioso dipinto
dell'artista napoletano Arnaldo De Lisio, risalente
ad inizio '900. I tre altari sulla sinistra sono certamente
meno antichi di quelli appena descritti e meno preziosi
per fattura e valore artistico. Il primo altare è
dedicato a Santa Filomena; è assai recente
e presenta una statua della Santa, seduta e pensosa.
Il secondo altare in passato era dedicato alla Madonna
del Rosario e ospitava un quadro con la Madonna che
libera dal fuoco del Purgatorio. Poi, nel 1700, custodì
la statua della Madonna del Rosario, preziosa e bellissima,
che ora è collocata nella chiesa propria della
confraternita attigua al Santuario. Oggi presenta
tre nicchie ed è detto “Della Madonna
d'Aprile”, perché in quella centrale
signoreggia, agile, snella ed elegante, la statua
della Madonna detta appunto “Di Aprile”,
che abitualmente viene trasportata in processione
in sostituzione di quella assai delicata della Misericordia.
La fanno da vedette, a destra e sinistra, San Vincenzo
e San Lorenzo. L'ultimo altare è dedicato a
Sant'Alfonso Maria de' Liguori; questi era un santo
molto amato dal popolo locale che ne conosceva bene
ogni particolare della sua vita, cantando con passione
i suoi inni sacri. L'opera di maggior valore custodita
all'interno della Chiesa è sicuramente la statua
della Madonna della Misericordia. Risalente al 1100,
è interamente fatta di stucco, risultante perciò
fragile e delicata. I colori originali sono andati
perduti ma l'immagine, così realistica e umana,
conserva ancora intatta tutta la sua bellezza e il
suo fascino. È collocata in un'artistica nicchia
di marmo posta sull'altare maggiore. Il Santuario
vanta la presenza di innumerevoli affreschi realizzati
dal maestro Arnaldo De Lisio e risalenti al restauro
del 1903-1904. Tra di essi, i più raffinati
e maestosi sono: “L'assunzione della Vergine”,
“Lo sposalizio della Vergine”, “La
Vergine e Santa Elisabetta con i piccoli Gesù
e San Giovanni Battista”, “La purificazione
di Maria Santissima”, “La Natività”,
“La disputa di Gesù fra i dottori del
tempio”, “La fuga dall'Egitto”.
Ulteriori opere d'arte pregevoli sono l'organo, il
pulpito, i due confessionali e i due portali.
IL CAMPANILE
Adiacente al Santuario della Madonna della Misericordia
si erge un imponente campanile. Risalente al 1400,
risulta essere alto 57 metri, con una cupola a bulbo
alta 6 metri. Dapprima molto modesto, fu poi ricostruito
a guardia del Santuario e benedetto il 16 aprile del
1731, data di consacrazione della Chiesa. Si ricorda
questa consacrazione tutti gli anni, l'ultima domenica
di aprile e si concedono quaranta giorni di indulgenza
per i fedeli che si recano a pregare in questa Chiesa.
Nella sua struttura è possibile individuare
due regioni: fino al piano delle campane, la struttura
ha pianta quadrangolare, con spigoli più o
meno accentuati e archi in pietra lavorata; la parte
superiore, dal piano dell'orologio alla cupola, si
presenta più snella, con gli spigoli smussati,
assumendo quasi una pianta ottagonale.
PARROCCHIA DI SAN NICOLA
La Parrocchia di San Nicola sorge di fronte alla piazza
principale del paese (Piazza Cristo Re). Sulle sue
origini storiche si hanno scarse notizie; sono andate
distrutte le Memorie manoscritte dell'Arciprete Don
Giovanni Meola, il quale nel 1669 parlava già
di San Nicola Piccolo, chiesetta gentilizia dei signori
De Rosa; è stato ugualmente distrutto l'antico
Libro dei battezzati che si conservava fino al 1889
dal sig. Dr. Antonio Giusto fu Pasquale. Certo è
che, nel Medioevo, al tempo dei Comuni liberi, accanto
alle chiese personali (nobiliari) dei feudatari si
affermarono le parrocchie territoriali. In quell'epoca
bisogna porre l'origine anche della Parrocchia suddetta.
Ciò è confermato dalla notizia ricavata
dai Registri di Carlo l'Illustre del 1308, in cui
si legge che Fontanarosa aveva, tra gli altri privilegi,
tre chiese: una arcipretale sotto il titolo di San
Nicola di Bari, una badia egualmente evirata nella
chiesa di S. Maria a Corte e una terza chiesa sotto
la invocazione di S. Maria della Misericordia. La
Parrocchia di Fontanarosa ha concorso, fin dall'erezione
del Seminario - avvenuta il 15 luglio 1567 per interessamento
del Vescovo Ascanio Albertini - al mantenimento dei
pio Istituto, offrendo particolarmente i benefici
di alcune cappelle rurali (Sant'Antonio, Sant'Eligio,
San Nazario, San Salvatore, Sant'Elia), tra cui quella
di Sant'Eustachio, «in loco prope Fontanarosarum»
retta «da D.Salvatore De Sibilia da Fontanarosa».
Parimenti, fin da tempi remotissimi, ha dato il suo
contributo alla mensa vescovile. Il Vescovo Tommaso
I Vannini, il 22 marzo 1603, dichiarò di libera
collazione l'Arcipretura di Fontanarosa, nella causa
tra il principe di Venosa, Carlo Gesualdo, e il promotore
fiscale della Curia medesima. La sera del 4 gennaio
1689 l'Arciprete di Fontanarosa fu messo nel carcere
di Benevento per ordine del Cardinale Arcivescovo
Fra Vincenzo M. Orsini. Ma il Vescovo di Avellino,
Francesco III Scanegata, se ne risentì e seppe
far valere i diritti della sua giurisdizione. Molto
incremento alla Parrocchia è stato dato dal
defunto Arciprete Mons. Nicola Petrone (1842-1937).
Formato alla scuola del Vangelo, fu ordinato sacerdote
il 6 aprile 1866. Dopo un'intensa preparazione apostolica,
eletto parroco il 2 luglio 1881, si dedicò
completamente e coscientemente alla cura delle anime.
Ampliò e restaurò la Parrocchia, arredandola
di due cappelloni, di marmi preziosi, di altari e
balaustre in pietra e in ferro. Il 2 luglio 1912 celebrò
solennemente l'incoronazione del S. Cuore di Gesù,
a cui la Parrocchia è dedicata, con l'intervento
del Vescovo e dei Parroci limitrofi, quasi preludio
della proclamazione della Regalità di Cristo,
promossa e benedetta dal Papa Pio XI nel 1926. Alle
testate del transetto della vasta chiesa risaltano
due grandiosi altari con preziosi quadri rispettivamente
dei secoli XVII e XVIII: uno rappresenta «L'Ultima
Cena» del celebre Maestro di Fontanarosa; l'altro,
«La Vergine con Bambino e Santi» del Tomaioli.
Al Sacro Cuore di Gesù, dall'Arciprete D. Davide
D'Italia - successore di Mons. Petrone - è
stato innalzato un maestoso tempio, su trasformazione
di quello già esistente.
IL PRESEPE
La nascita della tradizione del presepe a Fontanarosa
risale circa al 1910, quando la devozione del popolo
e l'amore per l'arte del Sac. don Gennaro Penta portarono
la cittadina a possedere quello che poco più
tardi fu definito “il più bel presepe
del mondo”[senza fonte]. Nonostante agli inizi
del '900 l'arte presepiale era del tutto finita, sopravviveva
nel mercato antiquariale di Napoli una fervida collezione
di pastori d'arte abilmente modellati dagli artisti
settecenteschi, primi fra tutti il Sammartino ed il
Celebrano. Fu proprio da questo florido mercato che
don Gennaro Penta riuscì a ricavare una collezione
di capolavori e piccole opere d'arte, che di lì
a poco avrebbero avvolto maestosamente un'intera ala
della stupenda Basilica di Maria Santissima della
Misericordia. La “costruzione” richiedeva
tempo ed iniziava dopo la festività dei “Morti”,
il 2 novembre. Da subito si differenziò da
quello primigenio napoletano, sostituendo al sughero
– molto costoso per l'epoca – il legno
d'olmo di cui il paese era fecondo. Si scelse minuziosamente
la parte alta dell'albero, che ben si prestava ad
imitare le rocce del paesaggio, alternata spesso a
legni di ulivo per creare qualche sfumatura al paesaggio.
In ultimo si mascheravano le fessure con lembi di
carta straccia imbevuta in colla di farina. Quindi,
dopo aver sparso un po' di muschio qua e là
si disponevano i pastori e le case, gli animali e
gli angeli, che il Don Penta aveva acquistato a Napoli.
Il presepe crebbe di fama anno per anno. Folle di
visitatori accorrevano a Fontanarosa ansiosi di ammirare
il “prodigioso presepe”, composto da oltre
700 pezzi tutti originali. Il più entusiasta
visitatore dell'epoca fu il Principe Ereditario Umberto
II di Savoia, il quale – informato della grandiosità
dell'opera fontanarosana – volle visitarla rimanendone
estasiato. L'eco della fama che il presepe si guadagnò
arrivò finanche a Roma, tanto che nel 1930
lo stesso si guadagnò il titolo di "Monumento
Nazionale". Con la morte del Sac. don Gennaro
Penta, avvenuta nel 1932, terminò la “pia
usanza” di fare il presepe; i pezzi non furono
più esposti, gli artigiani non furono più
presenti per la costruzione e dopo qualche tempo fu
donato al Museo Irpino di Avellino, dove oggi è
possibile ammirarne solo una piccola parte. Si chiuse
momentaneamente un capitolo della storia del presepe,
ma la tradizione non certò morì e, di
lì a pochi anni, rinacque ancora più
gloriosa. Il desiderio dei fontanarosani di rivedere
il “grande presepe” fu accolto ancora
una volta da un sacerdote, don Davide D'Italia, parroco
di San Nicola Maggiore e successore di don Penta quale
rettore del Santuario di Maria SS. della Misericordia.
Don Davide, spinto dal popolo, irato per la perdita
del presepe, iniziò la ricerca per la nuova
collezione di pezzi del '700 e, negli anni dal 1932
al 1949, esplorò molte volte il mercato d'antiquariato
di Napoli, acquistando pezzi di rara bellezza. Furono
anni di duro e certosino lavoro che logorarono, in
parte, il sacerdote che sarebbe poi morto in giovane
età. Ma quei sacrifici non furono vani perché
finalmente Fontanarosa poté riacquistare “il
più bel presepe del mondo”. La Chiesa
di Santa Maria della Misericordia accolse nuovamente
nella sua navata di sinistra l'imponente presepe.
Il sacerdote suo fautore, aiutato dal fratello Adolfo,
ne curava ogni dettaglio, mentre le maestranze locali
si adoperavano tutto l'anno per il miglioramento continuo
dell'opera. Il pio sacerdote non era solo amante dell'arte,
ma anche un ottimo parroco e croce della sua vita
fu la ricostruzione della Parrocchia di San Nicola
Maggiore. L'esigenza di reperire i fondi necessari
arguirono la sua mente in un progetto meraviglioso
che coinvolgeva il presepe fontanarosano. Meditò
infatti di poter far fruttare quell'enorme patrimonio
artistico, arrivando ad una soluzione geniale: esporre
il presepe a Roma nell'Anno Giubilare del 1950, al
fine di reperire i fondi necessari e, nel contempo,
portare il meraviglioso capolavoro alla ribalta nazionale
ed all'ammirazione di tutti i pellegrini che si sarebbero
recati nella città Santa. Il prete si rendeva
conto di tutti i problemi e della complessità
che richiedevano tale progetto, ma tutto questo non
lo spaventava ed anzi, con caparbietà, fidando
nella approvazione del fratello Adolfo, riuscì
a compiere quello che potremo definire un vero "miracolo".
Naturalmente occorrevano molti soldi, in un'epoca
non certo felice per tutti i compaesani. Fu allora
costituito un comitato di volenterosi "pro presepe"
costituito dallo stesso Don Davide e dal fratello
Adolfo, oltre che da Giuseppe Bianco, Vincenzo Petroccione,
Camillo Penta, Francesco Penta e Pietro Pasquariello.
Giusto per avere un termine di paragone attuale, i
membri del comitato anticiparono ciascuno la somma
di 500.000 lire, non certo pochi se si pensa che ci
si trovava a pochi anni dalla fine della II Guerra
Mondiale (era il 1949), equivalenti a circa 9 000,00
euro dei giorni nostri. Con i soldi messi a disposizione
dal comitato fu organizzato il trasporto di tutte
le componenti del presepe a cura di un gruppo di falegnami
fontanarosani composti da Giuseppe Cerundolo, Luigi
e Silvio Cosato, Aldo Di Prisco e Bernardo De Luca.
La carovana partì nei primi di dicembre del
1949 e la struttura venne trasportata dapprima con
un autotreno e successivamente la parte rimanente
con un camion. I “pastori” e tutte le
figure artistiche arrivarono invece a Roma durante
diversi viaggi ad opera di un autista. Il presepe
venne allestito per tutto l'Anno Giubilare presso
la Chiesa di Santa Maria degli Angeli nell'allora
Piazza Esedra e fu portato a termine nel giro di una
ventina di giorni. Al termine della costruzione in
loco da parte degli artigiani fontanarosani, l'opera
complessiva apparve stupenda nella sua meraviglia,
con una scena frontale di circa 13 metri e 7 in profondità.
La bellezza complessiva dell'opera realizzata e l'entusiasmo
suscitato nei pellegrini accorsi non bastarono però
a ritenere completamente riuscita la "spedizione"
nella città Santa. Le autorità romane
ignorarono l'opera e nonostante l'impegno pubblicitario
profuso dai membri del comitato l'iniziativa riuscì
solo in parte a compensare l'enorme impegno finanziario
e personale profuso. Basti pensare che il biglietto
d'ingresso fu fissato in 50 lire per i pellegrini
e 100 per gli altri visitatori, che certo non potevano
soddisfare le aspettative di Don Davide. La visita
al presepe avrebbe dovuta essere inserita nell'itinerario
d'obbligo del pellegrino, e forse solo allora le modeste
quote d'ingresso avrebbero potuto ripagare la fiducia
e consentito di raggranellare la cifra necessaria
per la ricostruzione della Chiesa Parrocchiale. Ma
tant'è, il risvolto morale dell'avventura sicuramente
ha ripagato quanti hanno profuso forze nella voglia
di far conoscere la meravigliosa opera fuori dai confini
di Fontanarosa e, da quel momento, moltissime persone
hanno potuto ammirare il presepe e il paese Irpino
che lo ospita e che gli dedica passione e amore. La
grande avventura romana terminò con la fine
dell'Anno Santo e dopo lo storico viaggio a Roma il
presepe fu destinato all'oblio e lo stesso Don Davide
ne cessò la costruzione a causa degli elevati
costi di montaggio. Dopo la prematura morte di Don
Davide D'Italia, giunge l'ora di un nuovo parroco
– Don Giulio Ruggiero. Questi da sempre riceveva
le pressioni di chi non voleva che il presepe rimanesse
relegato nella memoria delle persone. I più
giovani del paese, scossi dal trauma provocato dal
catastrofico terremoto del 1980, riuscirono a convincere
Don Giulio a riprendere in mano il progetto per l'allestimento
del presepe. Tra i promotori dell'iniziativa si ricordano
Luigi Di Prisco, Silvio Cosato, Salvatore e Tarcisio
Fucci, Pino Scala, Daniele Cefalo ed il sacrestano
Carlo Pilosi. Il comitato di promotori, a cui si aggiunsero
via via anche altri collaboratori, lavorarono per
due anni alla ricerca di nuovi ceppi d'olmo e per
restaurare i pezzi dell'opera ormai impolverati e
privi della loro bellezza originaria. Fu inoltre effettuata
un'accurata ricerca storica, finalizzata al recupero
fedele dell'opera sulla base di fotografie esistenti
che riprendevano i "vecchi" presepi di Don
Gennaro Penta e di Don Davide D'Italia. Dopo gli anni
di ricerca meticolosa, venne il momento di portare
a nuova vita il meraviglioso ed inestimabile presepe
fontanarosano. L'8 dicembre 1982 il “più
bel presepe del mondo” divenne nuovamente realtà.
Montato come sempre nella navata sinistra del Santuario
per circa 100 metri quadrati, il presepe fu riproposto
nuovamente alla venerazione dei fontanarosani. La
cerimonia di inaugurazione si svolse alla presenza
di tutti i cittadini e delle autorità, nonché
delle Televisioni locali e nazionali. Ma come si componeva
l'opera nuovamente realizzata? Partendo dalla Grotta
della Natività, si nota come essa - a differenza
di quella presente nell'arte presepiale napoletana
– sia strettamente collegata al dettato evangelico
di "umile grotta" del Redentore. Gli artisti
fontanarosani vollero modellarla nel legno d'olmo,
che per caratteristica estetica, molto si avvicina
alla struttura originaria. A dare movenza alla scena,
venne fatto scorrere un fiume attraverso un ponte
mentre alla base centrale della scena si ergevano
due maestosi pilastri romani e in lontananza una gola
impervia come scavata nella roccia. Costanti nel paesaggio
i rituali di case fatte di sughero, piccole in lontananza
e più grandi allo sguardo da vicino mentre
la Taverna (denominata "Casa Maggiore")
- quale luogo di ricercata dimora per Giuseppe e Maria
- veniva riproposta in tutta la sua bellezza e complessità,
apparendo slanciata e curata in una costruzione lignea
con tetto di tegole. Ulteriori elementi caratteristici
del presepe sono le "torri" che, poste nella
parte alta, creavano un gioco emozionante di luci
e ombre e la "fontana" che ricordava vagamente
quella presente in Piazza Cristo Re di Fontanarosa.
Altro elemento caratteristico del presepe strettamente
legato alla cultura fontanarosana era costituito dalla
"porta del paese", posizionata in una gola
formata da due montagne e da cui era possibile scorgere
in lontananza un paesino finemente curato. Infine
si stagliava sulla parete in fondo un'imponente tela
di 16 metri, dipinta da un artista del teatro S. Carlo
Di Napoli, giocata sulle sfumature di quindici tonalità
di colore diverse, partendo dal rosso opaco fino ad
arrivare al celeste della parte più alta. Naturalmente
la parte più importante del presepe era costituita
dagli artistici pastori e figuranti, eccezionalmente
diversi gli uni dagli altri. Ognuno aveva una propria
caratteristica ed altezza diversa a seconda della
posizione ricoperta nella scenografia e molte volte
si accompagnavano ad animali, anch'essi quasi realistici
nella fisionomia e nelle movenze. L'entusiasmo che
aveva portato nuovamente alla visione del presepe
dopo ben trent'anni dall'ultima esposizione ben presto
dovette lasciare spazio allo scoramento ed al pianto
della gente fontanarosana. Nella notte tra il 13 ed
il 14 dicembre ignoti malfattori, non curanti del
luogo sacro, si introdussero nel Santuario di Santa
Maria e trafugarono tutto il presepe sapientemente
costruito e solo pochi giorni prima emerso dall'oblio
degli anni. La mattina del 14 dicembre, all'apertura
della chiesa, emerse un quadro desolato che strideva
fortemente con l'aria di enorme gioia che aveva pervaso
il luogo fino al giorno prima. Solo i ceppi d'olmo
e le case rimanevano lì mute testimoni dello
scempio. Nessun pezzo era più rimasto ed ancora
una volta Fontanarosa doveva dire addio al presepe
che aveva faticosamente fatto rinascere. Durante la
Messa della vigilia di quel triste Natale il parroco
Don Giulio pronunciò la celeberrima frase:
<<Quest'anno il Bambin Gesù nasce orfano
per la malvagità degli uomini…>>.
Ed infatti, il Bambinello fu l'unico superstite dello
scempio, poiché - secondo tradizione - è
l'ultimo pezzo che viene inserito nel presepe. L'unica
consolazione in tanto scoramento fu la circostanza
che parte dei pastori erano ancora conservati in cassaforte
in quanto non erano stati puliti e restaurati. Ed
inoltre, a distanza di alcuni anni, gli organi di
Polizia riuscirono a recuperare alcuni pastori trafugati,
tra cui il bellissimo "Pastore dell'Annuncio".
Queste condizioni, unite alla forza d'animo che da
sempre contraddistingue i giovani fontanarosani, saranno
le basi per l'ennesima ricostruzione che, di lì
a pochi anni, vedrà contraddistinto nuovamente
il presepe, perché – come diceva sapientemente
don Nicola Gambino nel suo libro su Fontanarosa: <<…fortunatamente
i paesi non muoiono come gli uomini e certe tradizioni
fanno parte della storia del paese…>>.
A circa 20 anni dal "furto sacrilego" (precisamente
nel 1998) il presepe tornò, seppure ridotto,
al suo antico splendore. Alle porte del Giubileo 2000
un nuovo entusiasmo animò i promotori, così
come quello mai sopito dell'Anno Santo del 1950 e
il breve fulgore del 1982. Negli anni intercorrenti
tra la tragedia consumata e la nuova rinascita il
popolo fontanarosano riuscì ad ottenere dal
Museo Irpino di Avellino parte del presepe donato
dalla Famiglia Penta che non veniva esposto ma custodito
nei depositi. Ai pezzi che fecero i loro ritorno si
aggiunsero i pastori che erano stati instancabilmente
raccolti dal Parroco Don Giulio grazie alle numerose
offerte ricevute. Nel corso degli anni a seguire la
tradizione si è sempre rinnovata ed anzi si
è arricchita di una nuova pagina, costituita
da un nuovo presepe che, in forma permanente ed alternativa
all'originale, viene custodito dal 2003 nel Museo
Civico di Fontanarosa. Nei primi tempi le dimensioni
dell'opera sono state spesso ridotte ma, a decorrere
dal 2010, ogni nuova esposizione ha trovato una sempre
maggiore estensione, tanto che è stato previsto
finanche una coda in gennaio per visite guidate sotto
la supervisione del nuovo parroco Don Pasquale Iannuzzo.
IL CARRO
Il "Carro" è un obelisco di paglia
alto 28 metri, che viene trasportato da due coppie
di buoi il 14 agosto di ogni anno in onore della Madonna
della Misericordia, la cui statua, interamente realizzata
in paglia e legno, è situata in cima all'obelisco.
La tirata si svolge nel tardo pomeriggio, partendo
da Via Primo Maggio e concludendosi, con soste più
o meno regolari, in Via del Municipio.
Il Carro o "obelisco di paglia" costituisce
la caratteristica del paese, almeno dal lato tradizionale
e folkloristico e, in qualche modo, anche artistico;
la struttura infatti è realizzata mediante
intrecciatura di paglia inumidita, in modo da ottenere
trecce e bastoncini, che, cuciti insieme e alternati,
danno luogo a colonne, capitelli, guglie, foglie,
manti di ogni forma e proporzione, secondo un disegno
prestabilito, il tutto ben fissato su telai di legno
per assicurarne la stabilità e la durata. Il
Carro è un maestoso congegno alto circa 28
metri, strutturato in legno massiccio rivestito di
paglia lavorata a mano. Il nome "Carro"
gli è più appropriato che "Obelisco",
perché tutta la struttura mastondontica poggia
su un grosso carro agricolo a due ruote di legno rivestito
con cerchio di ferro e dotato di un robusto timone
sporgente, a cui vengono attaccate due coppie di buoi
per il trasporto; alla parte posteriore del carro
è collocato un meccanismo per regolarne il
movimento, denominato "martinicca", azionata
da un intelligente manovratore. Anche se non ci sono
notizie storiche attendibili, tuttavia si può
affermare con sicurezza che l'origine di questa tradizione
mista di religiosità e folclore risalga a circa
due secoli fa, quando gli abitanti del luogo, come
del resto tutti gli abitanti del meridione, seguendo
l'usanza dei popoli primitivi, erano soliti offrire
alla divinità le primizie del loro raccolto.
Col passaggio del culto pagano a quello cristiano,
il rito propiziatorio dell'offerta si mutò
in atto di ringraziamento per il buon raccolto e di
adorazione alla divinità, da cui ci si aspettava
qualche favore o grazia per sé e per i propri
cari vivi e defunti. Così, ogni contadino si
faceva un dovere e un vanto di portare al Santo o
alla Madonna parte del suo raccolto. Col passar del
tempo, i contadini di ogni contrada mettevano insieme
le primizie della mietitura e, tra canti e suoni campestri,
su un carro addobbato di spighe e tirato da buoi,
le portavano in dono alla Madonna, la cui effigie
dominava in cima a quel primo "carro" rustico.
La forma moderna ad obelisco è opera di un
artista di origine napoletana. Si conosce, infatti,
il nome di un certo Giuseppe Martino, falegname del
paese, che abitava in via Bastione, nel centro storico.
Doveva essere un bravo artista del legno. Egli aveva
due figli: Generoso e Stanislao che, seguendo l'usanza
del tempo, impararono il mestiere nella bottega del
padre. Erano intelligentissimi e, per meglio perfezionare
i loro prodotti artigianali, certamente non tralasciavano
di consultare libri di arte. Fu appunto, in seguito
alla conoscenza e allo studio degli antichi obelischi,
che sorse in loro l'idea di farne una riproduzione,
non in pietra scolpita come quelli, ma in legno e
paglia lavorata, perfezionando e dando forma classica
all'antico "carro agricolo". Nacque così
il primo "Carro", che fu anche il primo
del genere nella storia dell'arte minore, seguito
poi da quello di Mirabella Eclano. Alla realizzazione
del primo Carro, a forma ottagonale, parteciparono
sia Generoso Martino, che era nato a Fontanarosa il
2 dicembre 1833 da Giuseppe e da Maria Concetta Mele,
che il fratello secondogenito Stanislao, con la collaborazione
di molti altri artisti locali. Lasciamo al lettore
supporre quanti operai e volontari abbiano lavorato,
sotto la direzione dei fratelli Martino, per la realizzazione
di quella prima maestosa opera d'arte. Nel 1865 Stanislao
Martino si trasferì a Mirabella Eclano, dove
si era sposato con Faustina Campagna e dove continuò
la tradizione fontanarosana di costruire anche là
il Carro di paglia intrecciata. Intanto, il "Carro"
ottagonale di Fontanarosa attirava sempre più
le folle degli spettatori e dei turisti, particolarmente
nel giorno del trasporto, il 14 agosto. Era un incanto
di arte gotica e barocca. Col passar degli anni, l'attrattiva
di questa meravigliosa composizione armonica per figurazioni
e riproduzioni di statue e disegni vari è andata
sempre più scemando, sicché, mentre
il primitivo obelisco veniva costruito con fede, passione
e dedizione spontanea e disinteressata, le altre forme
artistiche, che si sono susseguite nel tempo, sono
apparse soltanto come manifestazioni folcloristiche.
Infatti, la prima forma ottagonale, la più
perfetta, dopo l'incendio che la distrusse nel 1889,
dallo stesso ideatore Generoso Martino fu sostituita
con una seconda forma o sagoma ben diversa, quadrangolare,
più semplificata, ma ugualmente ricca di arte
e di armonia in un barocco leggero e attraente, che
durò, anche dopo la morte dell'autore, avvenuta
il 7 novembre 1904, e dopo la caduta del carro nel
1907-8, fino all'anno 1947, allorché si ritenne
necessario rinnovare l'intero tessuto e rivestimento
di paglia intrecciata ormai logorato dal tempo, conservando,
in gran parte, il medesimo disegno del carro precedente.
Questo rinnovamento durò dal 1951 al 1969 e
fu seguito e diretto dall'artista locale Mario Ruzza.
In quest'anno si sentì il bisogno di rifarlo
ancora, ma, questa volta, pur essendo stato affermato,
nel Resoconto dei festeggiamenti del 1969, che "il
disegno del nuovo carro sarà il medesimo di
quello precedente", si abolì di proposito
il disegno precedente e se ne ideò uno nuovo
(negli anni 1969-72). Il "nuovo" Carro,
rifatto completamente, anche nella sua struttura interna,
su disegno, progettazione e direzione dei lavori dell'artista
Mario Ruzza, introdusse sostanziali ammodernamenti
e perfezionamenti, sia nella struttura portante che
nelle singole componenti rendendone il montaggio e
lo smontaggio estremamente più rapido ed agevole.
Anche il "carrettone", ossia la base mobile
su cui poggia tutta la struttura, fu completamente
rinnovato, e, fra le altre cose, il "timone",
ovvero il palo a cui vengono attaccati i buoi per
il traino del Carro, fu reso removibile, al fine di
agevolare la sosta dello stesso al centro dell'incrocio
stradale, alla fine del trasporto; fu ideato e realizzato
un nuovo e più efficiente sistema frenante
e ai quattro angoli furono disposti degli efficienti
sistemi "anticaduta". L'aspetto estetico
e decorativo fu completamente rinnovato e fu adottato
lo stile gotico nell'intera opera sostituendo il precedente
"miscuglio" di stili. Tutte le decorazioni
furono ideate ex novo e l'altezza dell'obelisco fu
notevolmente elevata. Il carro cadde nuovamente nel
14 agosto 2018.
La struttura consiste di sette piani o registri ed
è tenuta in equilibrio da 32 funi, alle quali
si aggrappano ogni anno centinaia di giovani festanti.
La cerimonia è suggestiva. Lentamente, dopo
la benedizione del sacerdote e lo sparo di alcuni
colpi in aria per segnale, il convoglio, sormontato
da una statua della Madonna rivestita di un manto
intrecciato, si muove dal posto dove viene costruito,
a circa quattrocento metri dal centro, fino alla piazzetta
prospiciente il Corso Mazzini. L'avvenimento folcloristico
segna la preparazione immediata alla Festa del 15
e, specialmente, alla solenne processione, che nel
pomeriggio, si snoda per le vie non soltanto principali,
come nel passato, ma anche secondarie, in onore dell'Assunta.
Dopo pochi giorni, l'obelisco viene smontato, pezzo
per pezzo, e viene riportato nell'apposito casetta
fatta costruire nelle adiacenze del luogo dove avviene
la costruzione.
ORIGINI E CENNI STORICI
Le sue origini sono da ricercarsi nella vicina città
di Aeclanum, posta sulla via Appia, che allacciava
Roma-Benevento-Brindisi; questa sorgeva in un ampio
territorio dell'Irpinia, la cui area comprendeva l'odierno
Passo Eclano e parte di Mirabella Eclano e Grottaminarda.
Fondata dagli Osci, dapprima fu «città
libera» poi, dopo le guerre sannitiche, ebbe
il diritto di cittadinanza romana; finalmente, sotto
Adriano - come prova il Mommsen - divenne addirittura
Colonia militare di Roma. Dopo un lungo periodo di
fasto, Eclano fu presa e distrutta dall'Imperatore
greco Costante II nel 662, prima di attaccar guerra
con Romualdo, duca longobardo di Benevento. I motivi
che indussero l'Imperatore alla distruzione della
cittadina sono da ricercarsi nel suo timore di lasciarsi
alle spalle una città nemica tanto pericolosa.
Molti abitanti furono trucidati, altri riuscirono
a trovare scampo con la fuga nelle zone circostanti,
dando origine così a diversi paesi, tra cui
Grottaminarda e Fontanarosa. Ne è prova il
fatto che numerose lapidi eclanesi furono trovate
nel territorio di Fontanarosa e trascritte da diversi
autori: Pratillo, Lupoli, Guarino, Mommsen, ecc. E,
poiché la distruzione di Eclano è avvenuta
al tempo dei Longobardi, possiamo ritenere senz'altro
che Fontanarosa, come sostengono gli storici Bellabona,
Leone Ostiense ed altri, sia stata edificata appunto
da quel popolo barbaro, di ceppo germanico, convertitosi
al Cristianesimo. Il primo nucleo di abitanti, costituito
da eclanesi scampati alla distruzione della loro città
nel 662, portò custodito in cuore, nella nuova
località ove sorse Fontanarosa, un tesoro preziosissimo:
la fede religiosa, seminata già in Eclano dall'Apostolo
San Pietro, durante il suo primo viaggio a Roma, fede
che era favorita e assecondata dagli stessi Longobardi
convertiti. Qualche anno più tardi, gli abitanti
della primitiva borgata fontanarosana vennero in possesso
di una bellissima statua in terracotta, di stile bizantino,
forse una delle tante immagini della Vergine che in
questo tempo dall'Oriente furono portate in Italia,
per sfuggire alla nuova controversia religiosa riguardante
l'iconoclasmo. La lotta contro il culto delle sacre
immagini, che durò circa due secoli, (dal sec.
VIII al IX) divampò anche nella contrada di
Fontanarosa, tanto che i primi cittadini, dopo aver
potuto venerare appena per pochi anni l'incantevole
Immagine della Vergine in qualche rozza cappella costruita
dalle loro mani al posto dell'attuale sagrestia del
Santuario, per sottrarre la statua al furore ereticale
degli iconoclasti, furono costretti a nasconderla
in un sotterraneo adiacente a detta sagrestia, in
fondo ad un pozzo ove giacque dimenticata fino a circa
il secolo XIV. Intanto, la fede cristiana e specialmente
la devozione alla Madonna, avevano contribuito a tener
unito sempre più il modesto gruppo di quei
primi abitanti che, in maggior parte, assecondando
la natura del luogo, si erano dati alla pastorizia
e all'agricoltura. Non si conosce di più sull'origine
di Fontanarosa a causa, in massima parte, dello sterminio
e delle distruzioni perpetrate dovunque dai Longobardi
prima e dai Saraceni e dai Normanni dopo. Secondo
gli storici Leone Ostiense (Cronaca Cassinese -Lib.
II. Cap. II) e Bellabona (Ragguagli della città
di Avellino, 1656), Fontanarosa, che nei primi tempi
si chiamava Rosa, nel 987 fu colpita da uno spaventoso
terremoto, che ne uccise quasi tutti gli abitanti,
insieme ai paesi di Ariano e Frigento, come raccontato
nel «de Ariano et Fricento partem destruixit»
(Ostiense). Ciò prova che in quell'epoca l'umile
borgo già esisteva. Un altro buon indizio di
questa verità è possibile ricavarlo
dai ruderi di qualche monastero e di tante chiese
campestri presenti sul territorio aventi il nome di
un Santo (San Pietro, Sant'Elia, San Sebastiano, Sant'Antonio,
Sant'Eligio, San Nazario, San Salvatore, Sant'Eustachio,
Santa Lucia vecchia, San Marco, ecc.) che, come in
altre zone, si ritengono edificate dai Longobardi
divenuti Cristiani, poi distrutte dai Saraceni invasori
e, finalmente, ricostruite e dotate dai Normanni.
Dopo il terremoto del 987 che distrusse la borgata,
sulle rovine tornò infatti a fiorire la vita
per opera di quei barbari, i quali erano scesi in
Italia dalla Normandia verso il 1000, allorché
un loro capo, Rainulfo Drengot, ottenne il primo piccolo
feudo di Aversa dall'imperatore Corrado il Salico.
Poiché maggior fortuna ebbero successivamente
i cinque figli di Tancredi di Altavilla, che tra il
1043 e il 1098 si procurarono una serie di domini
in tutta l'Italia meridionale, si ritiene senz'altro
che Fontanarosa sia stata riedificata proprio in quest'epoca.
Ciò avvenne, con molta probabilità,
per iniziativa del conte normanno Erveo, comandante
la XII contea che comprendeva il territorio di Frigento
e dei paesi limitrofi. Dopo essere stata soggetta
per qualche tempo alla contea frigentina, Fontanarosa
divenne suffeudo di quella di Gesualdo, dalla quale
cominciò a dipendere. Nei registri di Carlo
l'illustre del 1322 sono riportate due notizie riguardanti
il paese di Fontanarosa: in una si fa parola di Roberto
Fontanarosa, che nel 1129 si recò in guerra
sotto Ruggiero, duca di Puglia, e Tancredi suo figlio,
conte di Lecce, con 4 militi, cioè cavalieri,
e 6 serventi; nell'altra, dello stesso anno e sotto
il medesimo duca, facendosi menzione dei baroni del
regno intervenuti in guerra, si fa cenno di Guglielmo
Fontanarosa (genero di Landone Ammiranti, o Ammirando,
signore di Paduli, San Lupo, Valle di Telese e Montemalo),
il quale concorse con 7 soldati e 10 serventi. Dagli
stessi registri, ove viene elencato il catalogo dei
baroni al tempo dei Normanni, risulta che Fontanarosa,
dopo essere stata dominio di Bartolomeo e di Roberto
Fontanarosa, divenne un feudo di due militi appartenenti
ad Elia Gesualdo (figlio di Guglielmo, primo signore
di Gesualdo, a sua volta figlio naturale del duca
Ruggiero), il quale lo aveva dato in suffeudo allo
stesso Roberto (Carlo Borrelli: Vindex neapolitanae
nobilitatisi). Elia ne tenne, per qualche tempo, con
altre terre il suffeudo, da cui trasse anche un contingente
di fanti e di uomini d'armi per la spedizione in Terra
Santa, fino a quando Fontanarosa, verso il 1190, passò
sotto il dominio di Lionello o Lionetto Gesualdo.
Nel 1210 Fontanarosa fu suffeudo di Giovanni di Fontanarosa
e, nel 1240, di Roberto, pronipote dell'omonimo già
menzionato, ambedue rivestiti, al tempo di Federico
II, dell'alta carica di Grandi Connestabili del Regno.
Per il quinquennio 1240-45 Fontanarosa doveva concorrere
alle riparazioni del castello di Acquaputida (poi
Mirabella), allora in demanio regio, cioè senza
un feudatario. Nel 1269 per il mantenimento dei militi
in provincia il paese fu tassato per 36 tari (= doppio
carlino di circa 0,85). Nel 1311 a Roberto di Fontanarosa
successe il figlio Bartolomeo. Questi ebbe l'investitura
dal Re Roberto, il quale lo mandò in Terra
d'Otranto a reclutare gente per armare galere, promettendogli
in compenso cento once di oro, dietro garanzia di
Nicola de Marra, signore di Serino. L'ultimo dei Fontanarosa
possessore del feudo fu Giovanni, il quale nel 1342,
mentre si recava in gita a Montevergine, fu saccheggiato
da Nicolò, signore di Sant'Angelo all'Esca.
Informata di ciò, la Regina Giovanna I dette
ordine al reggente della Vicaria di aprire un'inchiesta
contro Nicolò e compagni. Ma tutto andò
a vuoto, sia per l'uccisione del re Andrea di Aversa,
che per la venuta del re di Ungheria a vendicarlo.
Il Fontanarosa, per non subire l'onta ricevuta, insegui
il Nicolò che si era rifugiato in San Mango,
ove esercitava il governatorato per incarico di Margherita
di Capua, lo trucidò e, a mano armata, s'impadronì
del territorio. Ha fine, così, il dominio non
sempre onorato dei Fontanarosa sull'omonimo paese
che d'ora in poi cadrà sotto il potere di altre
famiglie illustri dell'Irpinia. Fu feudo prima della
contea dei Gesualdo, da cui passò ai Principi
di Piombino, ai Ludovisio e poi ai Tocco, principi
di Montemiletto e infine ai Cantelmo Stuart che furono
gli ultimi feudatari. Nell'Ottocento, all'epoca del
regno delle Due Sicilie, Fontanarosa fu aggregata
amministrativamente al circondario di Mirabella nell'ambito
del distretto di Ariano, all'interno della provincia
di Principato Ultra. In epoca post-unitaria il comune
rimase a far parte del mandamento di Mirabella nell'ambito
del circondario di Ariano di Puglia, all'interno della
provincia di Avellino.